Accademiocrazia
[di Ernesto Giacomino]
Un aspetto del Natale pericolosissimo, da non sottovalutare, è questa baldoria di recite, saggi, dimostrazioni d’arti marziali, concorsi di pittura, concertini strimpellati, esperimenti di fisica nucleare e pieces teatrali a cui ormai sono sottoposti tutti i bambini del classico target 0-12.
Non è più come un tempo, nossignori. Là al massimo c’era il presepe vivente dell’antivigilia, lo sforzo era tutto in quella strofetta smozzicata vestiti da angioletto o pastorello, mentre i genitori ammassati in classe ammiccavano ai banchi traboccanti di pandori, bibite e pasticelle. Roba vecchia, quella.
I nostri figli, magari non ce ne accorgiamo, ma a partire da novembre già sono tutti scambiati per novelli Baryshnikov, Uto Ughi, Dustin Hoffman. Il balletto oggi in piazza, domani i capitomboli al palazzetto, domani l’altro il coro in parrocchia. Fanno più attività loro, nelle festività natalizie, che gli elfi giocattolai di Babbo Natale.
Una gara allo sfiancamento, per chissà cosa. Un’aria di competizione che trasuda da ogni molecola d’intonaco delle aule: maestre tese e ansiose, occhi insonni, ore e ore di prove con una marzialità che nemmeno il sergente di Ufficiale e Gentiluomo. Me le immagino, spiarsi reciprocamente a denti digrignati, o mettere talpe nelle classi altrui (“dai, buttati nella 5^ B travestito da Esposito e poi vieni a riferire”). Come dire: hai visto mai che non s’arrivi al Giudice di Pace, prima o poi.
Poco male, anzi bene. Bene per i bambini, intendo. Quando li sfinisci, quelli: puoi tenerli impegnati per ore e ore col canottaggio prima, il parapendio poi e una mezza maratona per accompagnarli alla sera, e a mezzanotte saranno ancora a fare capriole sul divano in attesa del cartone animato preferito (per la serie: lo dicevo, io, che gli omogeneizzati sono cambiati).
Le vere vittime, diciamocelo, sono i genitori. Che, qualunque mestiere facciano, è categorico che nelle settimane precedenti il Natale lavorino più che in ogni altro periodo dell’anno. E che in quelle stesse settimane abbiano sempre, immancabilmente, un collega da sostituire, una commessa in maternità, un titolare in trasferta che conta sulla loro indefessa presenza.
E invece no, macché. Il giorno in cui hai la partenza del materiale più importante dell’intera vita aziendale, zacchete, t’hanno messo la recita della previgilia della vigilia con quadriglia e doppio carpiato misto esattamente allo stesso orario in cui passa il corriere per il ritiro. L’operazione bancaria da concludersi a tutti i costi entro le quindici coincide con la lezione speciale del catechismo sulle possibilità di utilizzo del bue da grotta come climatizzatore ecosostenibile. Mentre t’approssimi a staccare per il saggio di zumba della scolaresca, i pezzi che stai allestendo alla linea di montaggio aumentano di colpo per un raddoppio d’ordine del cliente.
Poi, però. Comunque sia ti ritrovi in platea. Ti siedi, si spengono le luci. Arrivano loro: sorrisi d’incisivi caduti, le guance arrossate. Qualcuno che trasgredisce e sventola la mano. L’eccitazione, la felicità, l’emozione di essere almeno per un’ora al centro di quello che, per loro, è tutto il mondo.
E pensi che anche stavolta, come sempre, ne è valsa la pena.