A non voler crescere

[di Lucio Spampinato]

Dev’essere stato fra i quattordici e i quindici anni che Gennaro Pasquino, per tutti Gegé, decise che la vita voleva lasciarla passare molto lentamente. E se il tempo, soprattutto in quell’età fiorita, ce la metteva tutta a spingere sull’acceleratore, Gegé non perdeva occasione per tirare il freno d’emergenza, provocando uno sballottamento del convoglio dell’esistenza che spesso influenzava anche le vite degli altri. Dalla famiglia non pretendeva nulla di più di quello che poteva assicurargli: una paghetta settimanale. Gegé la spendeva con parsimonia al bar Pierino, specie le sere di primavera e d’estate in cui dai tavolini del caffè si godeva lo spettacolo del via vai di belle signore che entravano e uscivano dal cinema teatro proprio lì di fronte. Il liceo gli aveva lasciato, su una base di cultura generale, una conoscenza poco solida della lingua dei Cesari; la matematica però  l’aveva studiata abbastanza bene, eseguendo per divertimento tutti gli esercizi a disposizione, ben oltre quelli assegnati, perché gli piaceva mettersi alla prova e comunque tutto quel ragionare gli ricordava le risoluzioni dei quesiti enigmistici, al pari di un rebus, di una zeppa, di un anagramma, tutte memorie care del nonno materno e di interminabili pomeriggi estivi. Da tutti i professori aveva preso la parte migliore, offrendo amicizia e spesso ricevendone. Ma la cifra con cui interpretava il suo ruolo sul palcoscenico della vita era l’ironia. Se, mettiamo, mentre sedeva al bar arrivava il ragionier Gallotta tutto trafelato e sudato, che all’epoca riscuoteva i crediti per don Vittorio Grimaldi, e dopo una filippica  al debitore riguardo alla puntualità dei pagamenti, cercava nella borsa  la cambiale da restituire e non la trovava, Gegé si schiariva la voce e declamava: “Cartuscella cadet et tota scientia squagliat”, suscitando le risate degli avventori, che ormai conoscevano a memoria la maccheronea del suo latino, e uno sguardo carico di odio e di inquietudine da parte del ragioniere. In un’altra occasione, era capitata una zuffa in via Italia.  Due tipi, dalla corporatura impari, uno enorme l’altro mingherlino, stavano picchiandosi. Il magro doveva essere la parte offesa, forse a causa della moglie, e si ostinava a portare nuovi assalti al suo Golia malgrado fosse già piuttosto massacrato. Qualcuno lodò la sua determinazione a lottare ancora e fu qui che Gegé osservò, nel silenzio di una pausa del combattimento: “Non c’è che dire! Il coraggio ce l’ha. È la paura che lo frega!”. E giù risate! Lo smilzo era ormai esausto e tutto contuso, quando gli astanti lo circondarono per impedirgli di continuare. E mentre questi, trincerato fra una dozzina di braccia, si scagliava nuovamente verso il gigante, apostrofandolo, Gegé, quasi a voler smascherare il pathos posticcio del momento, esclamò: “Tenitelo a quatt’ ca cinque so’ pochi!”, facendo scivolare ancora una volta in farsa la tensione tragica del momento. Questo era Gegé Pasquino, quello che aveva deciso di beffare la vita, alleggerendola ad ogni occasione con i palloncini di elio del suo studiato e scaltrito buonumore. E la sua leggerezza era limpida, autentica ma profonda; non avanzava scuse e per questo non aveva bisogno di alibi.

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