A me gli occhi

[di Ernesto Giacomino]

Non so come funziona nelle città qui intorno, ma, fateci caso, almeno noi battipagliesi siamo un popolo sostanzialmente triste. Non dico quando facciamo gruppo, gli aperitivi e il karaoke, lo struscio in piazza e via cantando. Lì, ok, si scherza e si sguaia, lo impongono le convenzioni. Parlo, io, di quando siamo soli, di quando s’è privi della spalla complice con cui recitare pubblicamente questa farsa della giovialità. In quella circostanza, e beh, da ognuno di noi – beccaci in coda alle poste, o sull’autobus, o al bancone del bar – sprizza sempre una sostanziale apatia di fondo. Mutismo, asocialità. Rassegnazione. Fai una battuta alle casse del discount e vedi sguardi appesi e bocche mute che ti commiserano come l’ultimo dei dementi.

Da bambino, io, nella sala d’attesa del medico ho stretto amicizie più forti di un’alleanza di guerra. Si giocava a tappi e biglie fra i piedi dei pazienti; se il tempo era buono si organizzava un nascondino o un’acchiapparella aspettando d’essere chiamati. E spesso mia madre se ne tornava carica di numeri di telefono a cui comunicare come mi s’era risolta la tonsillite, l’asma, le adenoidi.

S’era così, una volta. Socievoli, amabili. Semplici. Per strada, fra passanti, bastava un niente per presentarsi: un gesto di cortesia, una richiesta d’informazioni, un volto scambiato per un altro. La gente in coda dal salumiere barattava ricette e strategie all’uncinetto; in banca correvi il rischio che a conversare troppo perdessi il turno.

La vecchia solfa delle porte aperte tra vicini di casa, sissignori. Un’immagine che tiriamo fuori solo per teorizzare su un ipotetico crescendo di criminalità e insicurezza; quando queste porte chiuse, questi pianerottoli deserti, questi citofoni invalicabili andrebbero visti principalmente come una paurosa tendenza all’isolamento.

C’è poco di cui stare allegri, risponderà allora qualcuno. Sospesi borderline tra cinghia stretta e miseria, illusi dai governanti, pessimisti sul futuro più prossimo: vattelo a trovare, in questa selva, un motivo per stare di buonumore.

Allora ho pensato a un mese fa, quando m’è capitato di trovarmi in Svizzera. Non ci crederete, sono tristi anche lì. Economia che schizza, sicurezza a mille, disoccupazione zero, tasse al minimo, politica efficiente, eppure non ridono. Tutti inquadrati, rigidi, vittime di un’evidente noia atavica. È per questo, forse, che rispettano le regole: perché a contravvenirle non si divertirebbero. Non saprebbero farlo. E dire che ero a Lugano, mica Berna o Zurigo. Per loro stessa ammissione, il lato “terrone” della nazione, quello dove l’influenza degli usi e costumi italiani è ancora sentita abbastanza da provocare discriminazioni.

Il sospetto, forte, è che magari quaggiù siamo più svizzeri di quanto crediamo. Ognuno con gli artigli affondati nel proprio tesoretto: le cassette di sicurezza lì, lo zerbino pulito qui. La cultura del possesso e dell’inviolabilità del “nostro” – di qualunque cosa si tratti – che porta immancabilmente alla ritrosia, alla diffidenza verso chiunque. E in cui anche un sorriso gratuito, sincero, passa come un’offerta da respingere a priori: no grazie, sorrida oltre. Le assicuro che non ci serve niente.

13 marzo 2015 – © Riproduzione riservata

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