Una nuova felicità | di Ornella Cauteruccio

Esistono sentimenti la cui essenza più profonda scorre dentro di noi placidamente, come un ruscello di montagna che supera facilmente gli ostacoli e colma il silenzio del bosco con la sua melodia cristallina e sincera, ma finendo con l’interrompere inevitabilmente il proprio corso, disperdendosi in infiniti rivoli ciechi, ogni qualvolta si cerchi di trasformare tali sentimenti in parole. Così rifletteva Adelina guardando con un misto di rassegnazione e di stanchezza il foglio bianco davanti a sé mentre la lama di luce accecante tagliava in due la cucina annunciando tristemente il volgersi al termine di quell’ennesima giornata.Con un gesto stizzoso accartocciò il foglio di carta, rinunciando definitivamente al tentativo di dare anima e corpo ai suoi pensieri. Si alzò a fatica, sorreggendosi al vecchio tavolo di fòrmica verde con le gambe di metallo, ancora saldo nonostante i tanti anni di usura, a differenza di Adelina che faceva fatica a reggersi in piedi a causa dei tanti acciacchi che l’avevano resa quasi cieca, piegandone in maniera irreversibile sia il corpo, una volta forte e solido come una roccia, che lo spirito indomito da vera guerriera. Si avvicinò piano al buffet in sala da pranzo, ricoperto di strani ninnoli e di polvere che oramai non era più in grado di togliere e neanche di vedere. Prese la vecchia fotografia da cui il suo Antonio sorrideva fiero, con la divisa nuova fiammante da giovane militare di leva. Era bello Antonio. Adelina se ne innamorò a prima vista quando lo vide entrare nel reparto dei Grandi Magazzini dove lavorava come cassiera, e continuò ad esserne innamorata persa anche quando scoprì che era sposato e già padre. Quella fu la sua battaglia più grande: decise che sarebbe stato suo e così fu. Un amore potente, spesso messo a dura prova dal suo carattere autoritario e violento, ma continuamente sorretto dalla totale abnegazione di Adelina, disposta a fare qualunque cosa per lui e per la figlioletta nata dal loro amore, rimanendogli accanto fino alla fine. Adesso che la sua unica compagnia erano i ricordi e le ombre degli oggetti un tempo noti, si era svuotata di tutta l’energia che l’aveva contraddistinta. “Sono inutile, più di un’ala secca di una cicala” ripeté piano ad alta voce, recitando gli ultimi versi della poesia di Paolo Volponi a lei sempre cara. Era questo che avrebbe voluto scrivere a sua figlia, che non vedeva da quasi un anno e sentiva di rado. Per lei, che aveva fatto della forza d’animo e del coraggio un segno distintivo, mostrarsi nuda agli altri, vestita solo delle sue debolezze e delle paure, era qualcosa di inaccettabile, anche se “gli altri” erano la sua unica figlia, ma purtroppo, con il passare degli anni, la distanza si era fatta incolmabile. L’aveva persa, e di questo ne era tristemente consapevole.
Uscì lentamente sul balcone. Attraverso il velo impietoso della quasi cecità, osservò il sole infuocato che spariva lentamente all’orizzonte, dietro i palazzi di Cosenza vecchia: era sempre stato uno spettacolo bellissimo, sempre uguale a sé stesso eppure diverso ogni giorno, poi fu un attimo e si lanciò nel vuoto. Allargò le braccia come un uccello lasciando andare la foto di Antonio e, mentre si sentiva invadere da una nuova felicità, capì di essere finalmente libera.

Nella foto: Edvard Munch, Ragazza alla finestra

25 luglio 2020 – © Riproduzione riservata

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