Quarantaquattro coatti

[di Ernesto Giacomino]

Lungi dal dire che stia diventando una cattiva abitudine prettamente nostrana, ma fatto sta che in giro – almeno nei comuni limitrofi – non pare un fenomeno diffuso con uguale capillarità. 
Il tono di voce, cioè. O meglio: il volume. Fateci caso: ormai il battipagliese medio non parla più, urla. Urla al telefono, mentre è in strada di corsa e affannato, rendendo partecipe ogni passante delle sue diatribe con moglie, figli, colleghi. Urla quand’è al bancomat e non si trova con l’estratto conto: fa calcoli a voce alta, impreca, si sforza di ricordare quel prelievo o quell’altro chiedendo a interlocutori immaginari. Urla in macchina, fosse pure solo per salutare un conoscente o chiedere informazioni.
Qualcuno la chiamerebbe tendenza, consuetudine, vizio. Tranquilli, no: è solo maleducazione. La più subdola, infima, becera; quella per cui poco importa se nel mio vicolo c’è gente che ha la sveglia all’alba: ho il cane che mi aspetta al balcone, che faccio, non lo chiamo a squarciagola anche se sono le tre di notte? Sarebbe da insensibili. E perché negarmi l’ultima, rumorosa telefonata alla mia ragazza per augurarle un dolce riposo? Ok, potrei farla a casa, ma poi sveglio i miei: meglio qua in strada, metti ci scappa la litigata possiamo pure vicendevolmente mandarci a quel paese senza troppe interferenze familiari.
È così, poco da farci. È un altro pezzo di quel più ampio concetto di rispetto che va amorevolmente a meretrici, grazie a una gioventù sempre più bulla e a genitori sempre meno incisivi. Mia madre esagerava, ma se s’era in luoghi tradizionalmente votati al silenzio, tipo la sala d’attesa di un medico, e mi scappava di parlare giusto un millidecibel al di sopra del livello “sibilo”, mi minacciava mimandomi il gesto di una badilata nei denti.
Noi siamo cresciuti col diktat del “non disturbare”, come sul cartellino degli hotel, specie con la voce. Se manco male oltre le dieci di sera ti scappava di chiamare qualcuno da una stanza all’altra di casa, subito interveniva un familiare con l’indice al naso: “che mi urli, la gente dorme”. In palazzi, peraltro, in cui col muro più sottile potevano farci una diga nel Sele. 
Eh: provaci ora, a zittire qualcuno. A Battipaglia, se hai quella botta di fortuna d’abitare nei pressi d’un locale semi-notturno, non ti spaventano i gruppi live, il karaoke, la partita della nazionale col maxischermo in strada. No, no: quello è sopportabile. Di più: è prevedibile. Quello che ti spaventa è il dopo, quando gli avventori escono a prendere aria o a fumare, o s’intrattengono a salutarsi prima di andare. Sprezzanti di qualsivoglia forma di riserbo, discrezione, rispetto, parlano di qualunque cosa – dal calcio all’amore passando per università o lavoro – urlando, a notte fonda, come avessero un megafono in mano e davanti una banca con rapinatori e ostaggi. Ché se magari osi affacciarti per un rimprovero ti guardano anche con quella faccia intelligente da cernia appena scongelata: che è, capo? Invidia? Volete scendere a farvi una sigaretta con noi?
Perché poi magari il brutto della democrazia, in certe teste, è proprio questo: averli convinti che è la tua libertà a cominciare dove finisce la loro, e non il contrario.

12 luglio 2019 – © Riproduzione riservata

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