L’offerta sofferta

[di Ernesto Giacomino]


Sbaglierò, ma a Battipaglia l’apro&chiudo di esercizi commerciali è divenuto, da qualche anno in qua, argomento di studio alle facoltà di Economia. Là dove c’era l’erba ora c’è… un bar, no, una macelleria, no, una boutique, no, una sala scommesse, no, un pallonificio, no, niente più. Sembra quasi di vederli, questi titolari scalpitanti che ogni volta arrangiano in fretta e furie quattro pareti new age, inaugurazione, brindisi, saracinesca et voilà: business. Poi solo bus, poi in; poi, alla fine, ness: nessuno, appunto, che entri più nel negozio assaltato in fila per due solo venti giorni prima. O meglio: non tanti, pochi, radi. Niente a che vedere col flusso imbarazzante dei primi tempi di apertura. Per cui, oplà: si richiude, e via verso nuove avventure.
Eppure nella mia adolescenza – che purtroppo, per logica anagrafica, comincia a diventare sempre più lontana – questa era la normalità: don Nicola, per dire, trascorreva il grosso della giornata a fumare su uno sgabello davanti alla salumeria; Maria ‘a pasticcera, dietro il bancone, trovava il tempo di rifare a maglia l’intero corredino del suo esercito di nipotini; le due sorelle della merceria accatastavano sul primo scaffale a destra pile e pile di giornali di enigmistica. Ieri, molto più di oggi – a dispetto di certe frasi fatte e spiegazioni alla buona su crisi economiche ed effetti indesiderati – si spendeva per il solo piatto a tavola, il giocattolo annuale al figliolo e il vestito buono per Natale: le concessionarie erano ricomprese in due garage dalle pareti abbattute, con al massimo due macchine in esposizione; quei pochi elettrodomestici indispensabili li vendevano gli stessi radiotecnici, pagandoli ai fornitori con i soldi delle riparazioni; sfizi e leccornie erano banditi o quasi tali, tant’è che le bibite erano in bottiglietta e la Nutella era sinonimo di vaschettina & paletta a cinquanta lire il pezzo.
Ma – magia! – vivevano e sopravvivevano, quei negozianti là. Sistemavano i figli, compravano case, onoravano tasse e cambiali. Per decenni sono riusciti a tenere in piedi quei negozi pur con quel minimo di clienti che consentivano i tempi, con la pazienza e serenità di chi ha per unico obiettivo quello di portare il pane a casa. Loro, ma anche i rispettivi operai, barman, commessi, garzoni, che – nonostante l’assenza dei “pienoni” tanto auspicati dai commercianti di oggi – consideravano quegli impieghi così stabili e definitivi da metterci su famiglia.
Sarebbe banale e retorico, ora, spostare il discorso sulle mutate esigenze consumistiche della società, sulla forbice sempre più stretta (se non chiusa e serrata) tra salario e sussistenza: no, pesa anche altro. E forse più di questo. Gli affitti dei locali, ad esempio, secondo l’insana politica del “via tu, dentro un altro, l’importante è estorcere un canone che mi consenta di mantenere il Porsche”. O la fidelizzazione della clientela meno abbiente, magari con il ritorno a quel minicredito al vicinato che non voleva né rating e né garanzie. Perché anche qui, anche nella ricerca sfrenata di differenze tra l’ieri e l’oggi, ciò che pare balzare agli occhi più di tutto resta la perdita – progressiva, inarrestabile – di umanità.

10 febbraio 2017 – © Riproduzione riservata
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