La mattonella di Pollo | di Emilio Del Vecchio

Armando è seduto sulla poltrona come ogni giorno da febbraio, viaggia, ma con la mente, è a Calle Arenal di Madrid degustando un bocadillo al jamon Serrano con gli amici, è alla Boqueria di Barcellona ad assaggiare un burrito o una Pitaya con la sua fidanzata, mangia ed è felice; ora mangia ed è infelice. Pensa alla pandemia. Senza accorgersene, si catapulta nel periodo adolescenziale, un tempo irripetibile trascorso tra passioni, divertimento e fiducia nel futuro; lontano dal qui e ora. Il risultato è sprofondare stanco nella poltrona anni ‘70 in un confuso e disorientato dormiveglia, senza più voglia di pensare. 
Driin… driin… sembra una scena di C’era una volta in America, lo stordimento del protagonista è lo stesso, dall’altra parte della cornetta c’è il suo amico Diego, un ragazzo di periferia agli antipodi di Armando per cultura e pensiero, ma insieme si completano, un appassionato, un uomo umile che dribbla le difficoltà e regala amore stendendo una mano per portarti sul tetto del mondo, nonostante tutto. – “Hermano que pasa?” – simpaticamente ad Armando. – “Niente Diego, dimmi!” – “Andiamo a giocare a calcio.” – “‘Came’ ancora con queste cose da ragazzini…”. A questa risposta scocciata Diego meravigliò Armando con una risposta: – “Molte cose prima si fanno e poi si pensano. Sono sotto casa tua, hai cinque minuti”. 
Fu una scossa elettrica improvvisa, sobbalzò dalla poltrona, e uscì da quella stanza senza prospettive per assaporare i profumi della natura.
All’appello, per completare la triade vincente, mancava Paolo detto Pollo, da piccolo tarchiato com’era non reggeva il ritmo ma a 13 anni divenne l’emblema di chi fa dei punti deboli la propria forza, grazie a quel baricentro basso e a una buona visione di gioco riusciva ad illuminare con le sue giocate lo storico campetto del dopolavoro ferroviario. Un amico cerchiò in suo onore la mattonella dove tutto aveva origine.
Giunti sul luogo c’era solo un quadrato di cemento e tanto bastava per giocare una finale mondiale nello Stadio Azteca di Città del Messico o al Santiago Bernabeu di Madrid, tutta immaginazione o quasi. Giocarono fino a sera, come una volta, fu lì che Armando realizzò che era sbagliato relegare la felicità ad un lasso temporale e si impose di cambiare atteggiamento, di amarsi e godersi i momenti, di dare il giusto peso agli impegni, agli affari, di rallentare fino a stare fuori dal tempo superando il concetto stesso di superamento, che il mondo pare imporre su sé e sugli altri. Questo è stato per lui; per altri probabilmente quel telefono trillante non ebbe risposta o non suonò mai così come lumeggiò il loro professore di cinema al termine della proiezione del capolavoro di Sergio Leone.

Emilio Del Vecchio

16 gennaio 2021 – Riproduzione riservata

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