Il nero sfina (la coscienza)

[di Ernesto Giacomino]

Chissà quant’era difficile, prima, la vita. Quando il cittadino aveva ben presenti priorità e criticità da risolvere, e obbligava i candidati a presentarsi in campagna elettorale con un programma politico quantomeno credibile.
Oggi no, è più semplice. La gente ha capito che non serve avere un’opinione propria, è inutile e stancante: prima ancora di delegargli i problemi, ai politici, gli delega il pensiero. Elaborala tu per me, una teoria; poi vieni qua e imponimela.
Non fosse così, intendo, dovremmo spiegarci come mai, pur vivendo in uno dei comuni più commissariati d’Italia, col più alto numero di opere pubbliche incompiute, con amministrazioni, negli anni, balzate puntualmente agli onori della cronaca per dissesti, incompetenza, sospetti di corruzione, omissioni, assenteismi vari; con discariche a cielo aperto e decenni di diffuso abusivismo un po’ ovunque, anche qui ci si è fatti convincere da qualche sformapagliette prestato alla politica che il pericolo maggiore per l’economia, la vivibilità, la sicurezza locale arrivi da fuori. Da “loro”. Dai migranti, profughi, “invasori” in genere.
Che già quella parola là, immigrati, il battipagliese nemmeno l’ha ancora capita bene. Qualche tempo fa, quando facemmo quella comparsata in tv da Belpietro a “Dalla vostra parte”, gli argutissimi concittadini delegati che si spintonavano dietro l’inviato-aizzatore dimostrarono, tra un luogo comune e l’altro, di non aver neanche compreso la differenza tra popolazioni comunitarie ed extracomunitarie, mettendo nello stesso calderone polacchi, russi, nordafricani, romeni, asiatici e chiunque, in genere, non parlasse il dialetto locale e non mangiasse la mozzarella a pranzo. In sostanza, più che razzisti, quaggiù si è esterofobi a prescindere: che, non guardi le commedie di Eduardo la notte della vigilia? E no, devi farlo, tu qua sei ospite, tornatene da dove sei venuto.
Eppure. Possibile, voglio dire, sia così semplice venire qua e dirci a cosa dobbiamo o non dobbiamo credere? Possibile ci voglia così poco, a spostare consensi politici in un verso o l’altro solo romanzando – tra centinaia di problemi assolutamente nostrani e nati decenni prima del fenomeno migratorio – sullo spettro della “sostituzione etnica”, o sul marocchino che “ruba lavoro” a pochi euro l’ora, o sulla tal badante russa che avrebbe attentato alla pensione del badato? Possibile, ancora oggi, a un niente dal mettere piede su Marte, parlare ancora per sentito dire, per populismo succhiato dal chiacchiericcio popolare, per l’insana e colpevole pigrizia di non volerle individuare noi, le emergenze da affrontare?
L’immigrazione è una criticità, certo. Come magari lo sarà stata novant’anni fa, quando quattro quinti delle attuali famiglie battipagliesi confluirono qui da una Campania intera, spinte dagli stenti del primo dopoguerra. Non con i barconi, certo, ma sicuramente con ciucci e carretti. E chissà che i primi coloni, quelli che invece a Battipaglia c’erano già da anni, non si siano imbottiti di pregiudizi e urlato all’untore esattamente come noi oggi. Eppure, guarda qua, siamo sopravvissuti: forse perché i problemi, tra tanta isteria in omaggio che è sempre facile smerciare, erano davvero altri.

9 febbraio 2018 – © Riproduzione riservata
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