Era mio padre

[di Francesco Bonito]

È per me difficile scrivere questo articolo e mentre lo scrivo non sono ancora convinto di volerlo pubblicare. Se lo farò è per due ragioni: tante persone che stimavano e volevano bene a mio padre me lo hanno chiesto con commovente insistenza; e poi, se non si fosse trattato di mio padre, il giornale avrebbe certamente dedicato un pezzo alla memoria di Beniamino Bonito, per un decennio dirigente del locale commissariato di polizia.
Non parlerò dell’uomo né del padre, per rispetto della sua proverbiale riservatezza, ma racconterò del funzionario di polizia, del servitore dello Stato e della legge. Dirò del suo essere un funzionario di polizia atipico, scomodo e anticonformista, scelta che gli costò non pochi problemi col ministero degli interni, ma che gli permise di essere coerentemente se stesso: un uomo libero, leale, con uno smisurato senso del dovere, tutore dei più deboli e mai servile verso i potenti.
A Battipaglia il dottor Bonito arrivò nell’autunno del 1971, col delicato compito di “riaprire” il commissariato di polizia incendiato durante la rivolta del 9 aprile 1969. Mio padre mi raccontava dell’ostilità incontrata nei primi mesi, dell’impegno profuso per ricostruire un clima di fiducia verso la polizia, verso lo Stato, della fatica fatta per far comprendere ai battipagliesi che il commissariato era un luogo dove i loro diritti venivano tutelati e che i poliziotti erano al servizio della comunità. Difendeva la polizia, pur non sentendosi un poliziotto: “Sono un funzionario dello Stato”, rispondeva a chi gli chiedeva che lavoro facesse. Così come ricordo con quanta ironia confidò a un caro amico di Civitanova Marche (dove dirigeva il commissariato prima del trasferimento a Battipaglia) che gli chiedeva del suo successore: “Siamo entrati in polizia nello stesso anno, la differenza è che nella sua famiglia sono stati orgogliosi, nella mia si sono vergognati”. Papà era così, sarcastico, irriverente verso se stesso e gli altri; diceva sempre quello che pensava, anche quando era sconveniente.
Come  nei giorni successivi al terremoto del 1980, quando rilasciò un’intervista a L’Unità nella quale criticò l’operato di alcuni prefetti; la cosa irritò i vertici del ministero e il vicequestore Bonito la pagò cara, ma non se ne pentì mai. D’altra parte, in quei giorni, le confortevoli stanze del ministero degli interni erano quanto di più distante dalla sua sistemazione: dalla sera del 23 novembre 1980, infatti, mio padre si trasferì nelle stanzette del commissariato di via Salerno, dove trascorse notte e giorno tre settimane a coordinare le difficili operazioni di soccorso nei paesi più colpiti della provincia di Salerno.
Fu schietto e coerente anche qualche anno più tardi quando, promosso questore e chiamato a Roma ai vertici dell’alto commissariato per la lotta alla mafia, non esitò dopo pochi mesi a lasciare quel prestigioso incarico. “È un organo inutile, inconcludente, serve a far vedere che lo Stato fa qualcosa per combattere la mafia. Una perdita di tempo”, mi disse, comunicandomi la sua decisione. L’alto commissariato fu smantellato pochi anni dopo.
Fortissimo il suo legame con Battipaglia, dove ha vissuto fino allo scorso 23 gennaio. “Il commissario Bonito è stato un’istituzione”, questa la frase ripetutami da tanti battipagliesi; forse è vero. Visto che me lo dicono anche quelli che in gioventù ebbero confronti aspri con mio padre, militanti di una stagione politica nella quale rossi e neri si affrontavano senza esclusione di colpi. Gli stessi giovani apprendisti eversivi che negli anni Settanta dedicavano all’odiato commissario minacce “murali”, oggi riconoscono la sua correttezza e l’imparzialità mostrata in ogni occasione. La controprova, se mai ce ne fosse stato bisogno, la fornì mio padre stesso, con una delle sue risposte perentorie. Negli ultimi anni alla guida del commissariato di Battipaglia, prima del suo trasferimento alla questura di Salerno, arrivò al ministero degli interni una lettera anonima che riferiva che “il commissario Bonito viene spesso visto portare a passeggio un bassotto” (Charlie, ndr). Sollecitato a dare spiegazioni dal ministero, mio padre rispose per iscritto: “Se dopo 25 anni di servizio, l’unica accusa dei detrattori anonimi è che porto a spasso il cane, allora dovreste propormi per una promozione invece che chiedermi conto”. Era fatto così, mio padre, non le mandava a dire. Chi lo ha conosciuto può confermarlo.
Dovendo chiudere, scusandomi con chi non ha gradito questo mio amarcord familiare, riporto poche parole tratte da un articolo che nel lontano 1964 il quotidiano L’Eco di Bergamo dedicò a mio padre, allora giovanissimo funzionario, che lasciava dopo otto anni la questura della città lombarda.
“(…) È con sincero rincrescimento che lo vediamo allontanarsi da Bergamo poiché lo consideriamo uno dei migliori funzionari che la nostra questura abbia mai avuto. Conosciutissimo, il dott. Bonito, per la sua intelligenza, il suo tatto da vero gentiluomo, la sua imparzialità e il suo senso evidente, vivissimo del dovere, lascia a Bergamo il migliore ricordo e il desiderio di poterlo riavere presto. Funzionari come il dott. Bonito fanno onore al loro compito, dimostrano come si possa avere polso e fermezza ma farsi rispettare con cordiale naturalezza e con sincera stima da tutti (…)”.
Per lui, meridionale orgoglioso, tifoso del Napoli, la migliore promozione che potesse desiderare.

10 febbraio 2017 – © Riproduzione riservata
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