Edilizia impopolare

[di Ernesto Giacomino]

Graduatoria stilata ma assegnazioni latitanti, e in giro la leggenda metropolitana che gli alloggi siano finiti e pronti all’uso. Bum, scoppia il caos. Decine, tra assegnatari e non, assaltano le case popolari di via Manfredi, barricandosi all’interno. Come dire: una consegna chiavi – inglesi – in mano.

È ovvio, a questo punto, che i nostri temerari confidano nel famoso metodo Stanislavskij usato nelle scuole di recitazione: m’immedesimo a sangue nel ruolo del proprietario, m’impegno a passare ogni mattina davanti ai vigili con giornale e buste della spesa, buongiorno, come va, visto che tempo pazzo, e quelli via via finiscono per crederci. Magari, ogni pomeriggio, piazzo pure qualche bambino a giocare a pallone nel cortile, accordandomi con quello del piano di sotto affinché si spacci per un pensionato assonnato e ogni tanto tiri giù un secchio d’acqua e qualche imprecazione.

Il quadro sarebbe già drammatico così, a partita giocata in solitaria. Invece no, accade di peggio: è scattato il derby. La stracittadina di lusso. Non bastasse, insomma, da fuori un’altra folla di semiabusivi spinge per entrare, costringendo i vigili urbani a turni stancanti di controlli double face. Un assalto in coppia, da velociraptor: da qualunque lato ti distrai, finisci sbranato.

Storie di ordinaria follia, le chiamerebbe il Bukowski sbevazzone. Nelle palazzine mancano gli ascensori, ci sono fili elettrici scoperti, gli appartamenti non sono rifiniti. Asserragliarsi lì, per cosa? Non per abitarci, pare. O almeno, non da esseri umani. Vada come vada, non occorrerà comunque uscire per lasciare che si completino i lavori? Sfugge il senso, di questa occupazione. Sfugge la vera motivazione. Sfugge dove sia, qui, oggi, quella comprensibile disperazione che anni addietro portò ad azioni analoghe, dove solo tentate e dove sostanzialmente riuscite. Per dire: sono lontani, finalmente ben alle spalle, i postumi del terremoto. Lontani gli anni in roulotte, nelle baraccopoli, nei vagoni merci in disuso. E – più in generale e senza scomodare ricordi sussultori e ondulatori – lontano quel disagio economico che vedeva vivere all’addiaccio intere famiglie. Trecento euro mensili per un monolocale, ringraziando Iddio, oggi riusciamo a metterli via un po’ tutti, fosse anche in gruppo. Per cui non ce n’è più, di gente, sotto i ponti. Le sale d’aspetto sono deserte, anche di notte. Nessuno dorme in macchina o sulle panchine in piazza.

Ben venga, l’ambizione di migliorare: ma la corsa alla casa attuata in questa forma rischiosa, prepotente, ostinata, come di chi non ha altro posto in cui vivere, ha dell’illogico che dovrebbe far riflettere. Anche perché, ammettendo l’assurdità di un’assegnazione “in pectore” ai primi arrivati, questi dovranno comunque sborsare un corrispettivo. Per carità: comodo, lungo, agevolato; ma ben diverso dai tempi splendidi dell’Ina Casa, quando pagavi una scorza di mandarini al mese e dopo un tot ti riscattavi l’appartamento con l’equivalente in lire di un frullatore a batterie.

Forse ha ragione, allora, chi in quest’azione ci vede più forma che sostanza. Un segnale di sveglia all’Amministrazione comunale, ad esempio: rea, per alcuni, di aver ingiustificatamente dilatato i tempi di assegnazione. O l’effetto di proclami mal interpretati: un’eversione involontariamente sobillata, un placet alterato dal passaparola di corridoio, un disinnesco pro-tempore di una bomba a orologeria. Che ora, sciaguratamente, rischia di fare più danni della sua stessa esplosione.

27 marzo 2012 – © Riproduzione riservata

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