Bene, ma non malissimo

[di Ernesto Giacomino]

Le festività natalizie sono sempre un banco di prova, per testare lo stato di vivibilità di una città. Perché, in realtà, quello che in altri tempi è normalità, durante quei quindici, canonici giorni di frenesia collettiva diventa sempre straordinarietà, eccezionalità. Emergenza.
E a Battipaglia, di questo, proprio per una precisa inclinazione socio-antropologica, siamo campioni. Per dirne una: tra il 23 e il 24 dicembre occupiamo in massa banche e posta. Code chilometriche, pranzi saltati, famiglie abbandonate per ore. Perché? Niente, perché poi “chiudono per almeno due giorni”. Nemmeno si sa cosa ci si va a fare, agli sportelli; magari, quando arriva il proprio turno, ci si piazza di fronte all’impiegato con la faccia assorta, tipo “aspettate, mi sto ricordando le scadenze dei prossimi due mesi, le pago adesso e mi tolgo il pensiero”. Ma va fatto, per tradizione.
L’altra peculiarità è la spesa in generi alimentari: non quella per il cenone o il veglione di Capodanno, nossignori. Quella la si fa – sempre per tradizione – alle vigilie, all’ultimo istante, venti minuti prima che chiudano casse e luci dei supermercati (sempre alzando timidamente il ditino verso l’addetto con la fatidica frase “giusto un minuto, prendo una busta di latte e scappo”). Invece – per una qualche convinzione di un’imminente desertificazione post-catastrofe nucleare – quella che anticipiamo di giorni, decuplicandone i quantitativi, è la spesa corrente, quotidiana: anziché i soliti cento grammi di cotto tiriamo nel carrello prosciutti interi, prendiamo il vino in botti da cinquanta litri, montiamo il rimorchio all’auto per fare incetta di ballette d’acqua e merendine. Non sia mai, insomma, che il vicino s’affacci mentre apriamo il portabagagli e non ci veda scaricare almeno venti buste, tre casse da marinaio e un silos arrivato dritto dalla fattoria del Mulino Bianco.
Ma i più stressati, naturalmente, i più colpiti da questa epidemia del “che ne so se domani il mondo esiste ancora”, nonostante l’incedere del progresso e il rinnovarsi delle mode, restano comunque loro: parrucchieri e barbieri. Non c’è un tizio, non uno, che sappia affrontare le festività natalizie col dubbio di non avere i capelli perfettamente a posto. Gente che magari in quei giorni nemmeno esce di casa, che se ne sta da un’alba all’altra a giocare a tressette o godersi la maratona Mork e Mindy su Netflix, ma la cui messimpiega è fondamentale per l’aderenza al divano. Leggenda narra che, nelle notti delle vigilie, quando ormai pure ostetriche e giornalisti Ansa hanno smontato un attimo dal lavoro per godersi qualche ora con le famiglie, gli unici rumori che ancora impazzano per strade e palazzi sono sbuffi di phon e trasmestio di forbici.
Un po’ più seriamente, poi, si dovrebbe magari parlare del traffico inutile, del voler muoversi in macchina verso destinazioni a cui in genere si arriva a piedi, del coprifuoco forzato per la gente ubriaca già dal pomeriggio, dell’assenza di un piano di viabilità per sopperire ai parcheggi sottratti dai cantieri: ma oggi, per fortuna, non è tempo. Oggi è ancora tempo di auguri, sentiti seppur tardivi: comunque sia andata, anche stavolta, buon anno a tutti.

12 gennaio 2018 – © Riproduzione riservata
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