Al di là delle dune | di Iole Palumbo

Guardai nel thè e vidi l’immagine di me stessa ragazzina. Ero nella spiaggia dove i miei mi portavano tutti gli anni, eppure non ero felice. Di nuovo quel vuoto nella pancia, quello stesso vuoto che avevo messo a dormire per tutto l’inverno. Amavo il mio mare e allo stesso tempo lo temevo come il lupo di cappuccetto rosso. Ci avevo provato e riprovato ma ogni volta che volevo farmi cullare dalle sue acque, mi mancava il respiro. Lui lo sapeva si divertiva a tirarmi giù. Rideva di me insieme ai miei amici, che altro non aspettavano per prendermi in giro. Lo scorso anno era stato un disastro, a nessuno piaceva stare a riva e io ero stata tutto il tempo con il mio telo e il mio libro. Quel giorno stavo aspettando che arrivasse l’ora di pranzo, cosicché tutti salissero e io finalmente rimanessi sola anche fisicamente. Il mare ruggiva con tutte le sue gradazioni di azzurro, chiuso in un lato da un promontorio selvaggio e in un altro da una scogliera a picco. Mi ero riparata dalla sabbia rovente nella radura al di là delle dune, avevo steso il mio pareo sotto un enorme ulivo i cui rami si intrecciavano coi pini di fianco così fittamente che il sole invano tentava di trapassarli. La brezza fresca mi accarezzava i capelli arsi dal sole e mi crogiolavo al canto delle cicale che mi aveva talmente assorbito da sembrare un sottofondo silenzioso. Lì, non ricordo di aver mai avuto bisogno di un ombrellone, né di aver mai sentito una goccia di sudore. Avevo lo sguardo puntato diritto alle onde, sentivo che quello era il momento per andare. Raggiungere la riva significava evitare prima le spine delle enormi pale dei fichi d’india che sbucavano tra le palme, poi gli indistinti arbusti, verdi e vigorosi all’interno e aridi e secchi nel lato della spiaggia. Infine le multiformi collinette di sabbia ricoperte dal candore dei gigli di mare e dal verde delle alofite. Ero determinata a portare a termine il mio percorso iniziatico, tutte le paure erano ormai un’ombra insulsa. Lo avevo capito che stavolta era il mare a chiamarmi e che senza il suo segnale mai avrei imparato a nuotare.
Dopo di allora non ero più tornata al paese, le mie vacanze si erano consumate in giro per il mondo, ma quel ricordo, spuntato così all’improvviso a colazione, mi aveva messo una voglia di matta di rivedere la mia spiaggia. Annullai i miei inutili impegni e in due ore ero lì. Di sicuro di mio non c’era più nulla! Una freccia mi obbligò a seguire l’asfalto per immettermi nel parcheggio spuntato al posto degli ulivi secolari. Anche la brezza marina non poteva nulla contro l’afa che si sprigionava dai tendoni a copertura. Le dune ricoperte di gigli erano diventate un’ampia spianata pavimentata e il mare non si vedeva più, nascosto dalle fitte file di ombrelloni e sdraio. E il canto del mare, delle cicale, dei grilli? Completamente coperto dalle hit del momento. Pensai che per insegnare a nuotare a mia figlia sarebbe stato meglio portarla in piscina.

Iole Palumbo

11 luglio 2020 – © Riproduzione riservata

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